It’s a Sin (tradotto in italiano “È peccato“) è una (mini)serie drammatica (di ‘mini’ c’è davvero solo il numero degli episodi, perché la potenza narrativa è in formato ‘maxi’) ambientata a Londra negli anni ’80, che ci trascina indietro agli anni segnati dal contagio dell’HIV, di quando l’AIDS si è insinuato prima tra i titoli delle notizie provenienti dall’America e poi nella vita vera, quotidiana, delle persone, generando un vortice apparentemente inarrestabile di paura, discriminazione e morte.
Spoiler: c’è un po’ di spoiler.
Si parte dal 1981, quando le vite di un gruppo di ragazzi omosessuali e una ragazza confluiscono e si intrecciano per le strade di Londra, costruendo amicizie che diventano famiglie alternative solidali e amorevoli, lontane e protette dagli occhi inquisitori dei sobborghi provinciali che mormorano e delle famiglie di sangue, conservatrici e religiose, dove la crescita personale segue un percorso obbligato e la diversità non è prevista, ammessa, accettata o ascoltata ma, anzi, spesso viene cacciata di casa ed emarginata.

Ma a Londra c’è un posto per tutta l’umanità: Londra è la città delle possibilità, delle scoperte, della giovinezza, del divertimento, della libera espressione della propria identità viscerale. Si vive di attimi e di esperienze, si assecondano le pulsioni del corpo e il desiderio di evasione della mente. Si cerca di rubare tempo alla vita adulta e di allungare il limbo di spensieratezza.
Ma il tempo acquisisce un nuovo significato quando da oltreoceano inizia ad arrivare la voce di una malattia nuova e sconosciuta: l’AIDS.
La notizia arriva bisbigliata e circondata da silenzi, vergogna e mistero, ma urla un odio cristallino. L’AIDS arriva a conoscenza della massa sotto forma di malattia stranamente selettiva, di “cancro dei gay”, una punizione divina per omosessuali (e tossicodipendenti) che hanno smarrito la retta via: GRID è la prima sigla di quattro lettere veicolata dalla stampa – ‘Gay-related immune deficiency’ (immunodeficienza gay-correlata).
La comunità omosessuale viene minacciata da un nuovo nemico invisibile e incomprensibile e costretta ancora di più ai margini da una società perbenista ed eterocentrica che adesso è anche terrorizzata e abbandonata alla sua ignoranza.
Cosa sia l’AIDS e la sua causa – il virus dell’HIV – nessuno lo sa, perché le notizie sono lacunose, più cariche di discriminazione che di informazioni. E, come ben sappiamo, la carenza di informazioni lascia un vuoto che diventa terreno fertile per coltivare ignoranza, disinformazione e panico.
Ognuno dei protagonisti della serie colma questo vuoto in maniera diversa – chi con il negazionismo, chi con il terrore; qualcuno si mette alla ricerca di informazioni, qualcuno trova la motivazione ad agire, a fornire il proprio supporto; qualcuno si attiva lanciando un grido d’aiuto alle istituzioni e implorando una reazione da parte della società che preferisce girare la testa dall’altra parte o puntare il dito.

Dal 1981 la serie arriva fino al 1991. Attraverso il decennio, e la serie, l’AIDS si insinua con forza subdola e spietata, erodendo spensieratezza, speranza e vita e, contemporaneamente, il sorriso iniziale dello spettatore. La narrazione si sposta dagli angoli libertini delle discoteche alle stanze costrittive degli ospedali. Dalle sale d’attesa per i casting per aspiranti attori a quelle in cui si aspettano i risultati dei test HIV. Dalle feste in casa con incalcolabili invitati e imbucati di passaggio alla conta delle vite che vengono strappate e di quelle che si salvano.
It’s a Sin colma un vuoto narrativo raccontando una storia scomoda che sembra troppo crudele per essere vera e commemorando delle morti troppo precoci, troppo veloci, troppo ingiuste. Ma la narrazione non si lascia andare a pietismi gratuiti, autocommiserazione o banali moralismi. La rappresentazione è schietta e a tratti spregiudicata: c’è la voglia di vivere sopra ogni cosa, sopra la malattia, c’è la ricerca sfrenata del piacere, c’è il sesso libero, spensierato e spudorato; c’è l’impazienza di crescere e collezionare esperienze, ci sono la sfida al rischio e la cecità dell’invincibilità giovanile, la spavalderia tipica dell’inconsapevolezza; e ci sono gli errori dai quali non si torna indietro, quelli che tornano a boomerang e presentano un conto salatissimo, a volte letale.

Uno dei messaggi potenti che trasmette la serie è proprio quello della voglia e dell’importanza di vivere: l’AIDS e l’HIV sono delle minacce reali con cui si deve convivere e fare i conti, ma alle quali non si può lasciare il potere di paralizzare le vite di intere generazioni. I protagonisti trovano ognuno un modi di andare avanti, che sia verso la vita o verso la fine di essa.
It’s a Sin era una serie doverosa, il minimo che si potesse fare per rappresentare un momento di sofferenza e stigmatizzazione per tutta la comunità omosessuale. è un prodotto che, pur rimanendo una fiction (ma realizzando – attraverso fotografia, costumi, musica – una ricostruzione lucida e suggestiva di quegli anni), spalanca occhi e mente, contorce lo stomaco e scuote la coscienza.
Rimane tuttavia una narrazione parziale, che ha bisogno di continuare, modificare e includere più protagonisti. La storia della diffusione dell’HIV ha voltato pagina e, grazie ai progressi scientifici, oggi parla meno di morte e più di terapia. Quello che non è mai stato cancellato è lo stigma che la società non ha mai provato a curare ed eradicare, e che continua a tracciare una linea tra i soggetti a rischio e quelli che pensano di non esserlo. Per questo, dopo It’s a Sin, la narrazione dell’HIV non deve fermarsi e deve continuare a divulgare informazione, consapevolezza e responsabilizzazione; deve raccontare la storia di un virus che non è poi così interessato all’orientamento sessuale, che colpisce uomini e donne, persone gay e etero. Ecco, se proprio si vuole trovare una pecca, è questa: non aver rappresentato neanche una persona etero o di genere femminile lottare con l’HIV.

It’s a Sin è stata prodotta in Inghilterra e trasmessa su Channel 4 dopo aver collezionato una serie di rifiuti da parte di varie emittenti (Channel 4 compresa), grazie alla determinazione del suo ideatore Russell T Davies, che ha iniziato a lavorarci nel 2015. Inizialmente doveva essere composta da 8 episodi, che sono stati ridotti a 5, della durata di circa 45 minuti ognuno. In Inghilterra ha collezionato record di visualizzazioni e non solo: oltre a essere diventata la serie drammatica più binge-watchata nella storia di Channel 4, ha innescato un aumento dei test dell’HIV, facendoli quasi quadruplicare nelle prime settimane di uscita.
La serie è stata anche applaudita per il casting, che ha assegnato i ruoli da protagonista ad attori omosessuali (spoiler: non è una cosa per niente scontata).
In Italia al momento non è ancora disponibile ma è stata annunciata l’acquisizione di Starzplay, quindi “prossimamente” arriverà anche qui.
Per chiudere, le ultime due riflessioni sulla serie.
Impossibile non notare delle similitudini (disturbanti) tra la narrazione della “vecchia” pandemia dell’AIDS e quella attuale del Covid: il nemico invisibile che arriva non si sa bene da dove e perché, che colpisce soprattutto una cerchia di soggetti a rischio, che sembra più potente della scienza e della medicina, che impone un certo distanziamento.
Impossibile non chiedersi come sarebbero andate le cose se, invece che far circolare l’odio, i media si fossero impegnati a far circolare informazioni e linee guida chiare (cos’è l’HIV, come si trasmette, come si ferma la diffusione, come si evolve il contagio, come si previene, cos’è l’AIDS… insomma, cose che a molte persone non sono chiare neanche adesso).
Impossibile non accusare il colpo e non provare un rancore profondo verso una società che preferisce emarginare, silenziare e spegnere le vite che si allontanano dal percorso eteronormato piuttosto che educare e far evolvere quelle che si fanno deviare dall’ignoranza e dall’omofobia.
‘La!’
(questo è solo per chi l’ha vista).